Charles Manson è morto, viva Charlie
Intervista a Luca Buoncristiano, autore di Una svastica sul viso (2020, El Doctor Sax)
Ho ucciso qualcuno?
È la frase che leggerete più spesso nel nuovo libro di Luca Buoncristiano, Una svastica sul viso (2020, El Doctor Sax). Una frase che racchiude forse tutta l’essenza del suo protagonista, Charles Manson, criminale per costituzione e serial killer suo malgrado.
Con uno stile a metà tra narrazione e confessione, Luca Buoncristiano sceglie di dare voce a uno dei personaggi più controversi del nostro tempo, lo specchio perfetto di una società intimamente marcia ma apparentemente perfetta e di un mondo malato e controverso che ha scelto in lui il capro espiatorio ideale per purificare le sue anime dannate.
Perché se Charles Manson è stato un criminale, ed è indubbio che sia così, come spesso accade per personaggi come lui, la sua più grande colpa è stato il suo dolore. Ma come dice lui stesso a un certo punto del romanzo “il dolore non è male, è bene. Ti insegna delle cose”.
[Questa intervista è stata scritta a quattro mani con Luca stesso, che è prima di tutto un amico. E come ogni chiacchierata tra amici che si rispetti, le domande e le risposte si intersecano tra loro e si completano a vicenda. E quello che resta ti arricchisce sempre, anche a distanza di giorni]
Potete comprare il libro qui.
Come mai Charles Manson e perché proprio oggi?
C’è una frase in “Per farla finita col giudizio di Dio” in cui Artaud dice “Tutto questo perché l’uomo un bel giorno ha fissato l’idea del mondo. Due strade gli si offrivano: quella dell’infinito fuori, quella dell’infimo dentro. E ha scelto l’infimo dentro.”, ecco a me interessava narrare questa scelta.
Mi interessava dare voce a questo infimo.
Inoltre, mi piace lavorare sui miti perché lavori sull’assoluto. Se vuoi parlare del male, Charles Manson è come Adolf Hitler, un’efficacissima icona del male. Solo che in questo gioco, cerco nel mito il suo rovesciamento o quantomeno voglio vedere solo il tappeto quanta polvere c’è.
Rispetto all’oggi, non mi pongo mai il problema. Non cerco di essere attuale nelle mie scelte. Anzi direi che faccio scelte assolutamente fuori tempo massimo. Ciononostante, l’arte, quando è fatta bene, trova sempre la sua via per puntarsi nel presente. Qui si narra di una persona che ha vissuto rinchiusa per la maggior parte della sua esistenza e guarda un po’ ci siamo ritrovati tutti rinchiusi dentro casa. Ironicamente è un anche un libro sul lockdown, sulla privazione della libertà e tutto quanto ne consegue.
E poi perché era un modo come un altro per indossare nuovamente una maschera e bisbigliare alcune confessioni. Manson è il mio confessionale.
Il libro si apre con una telefonata di Charlie a Joe Rotto, protagonista dei tuoi libri precedenti, Libro Rotto e Album Rotto.
Il libro era pensato come “spin off” delle avventure di Joe Rotto, tanto più che Charles Manson compare in entrambi i libri precedenti. L’avevo immaginato con quel tono lì, grottesco, divertente, surreale. Ma non calzava. Manson è già molto strutturato di suo come personaggio, ha la sua lingua e non è quella di Rotto. Così quella fantomatica telefonata è diventata questo monologo, questo assolo dove il filo della cornetta può anche essere staccato, tanto è un dentro che parla ad un altro dentro.
È un lavoro diametralmente opposto a quello del Libro Rotto dove non c’è nessuno sguardo all’interno del protagonista. Rotto è totalmente vuoto, non ha un’interiorità, esiste come fenomeno esterno. Una svastica sul viso invece è uno sguardo nel profondo.
Che sia il mio o il suo, poco importa, perché penso che la scrittura sia un modo per smarrirsi. Bisogna perdersi in questo errare, non seguire le indicazioni. Le indicazioni portano a destinazione certa e questo porta al peggio, cioè a tutto quanto è scontato.
Chi scrive è, indubbiamente, un narcisista ma se è bravo si nasconde, molto in fondo. Si butta nel lago con un sasso legato al collo. L’autore deve sparire lasciando il dubbio di sé.
Questo libro rappresenta tutto questo. Ho rubato a me quello che è stato rubato a lui. C’è chi porta croci e chi svastiche.
Il male è affascinante, ma tra le righe di questo romanzo/monologo viene fuori, secondo me, una cosa molto interessante: il male in senso assoluto non esiste.
Il male in senso assoluto non esiste. Non è il diavolo a tentarci. È assolutamente umano. Assolutamente naturale. Quasi banale. Al contrario per fare del bene ci vuole uno sforzo. Il bene è frutto dell’educazione, della religione, delle leggi, del contesto socioeconomico. Ci viene comandati di non comportarci male, non di fare del bene. Il male ha una sua terribile purezza di fondo. Una sua innata sincerità. Chi lo commette lo fa pensando di essere nel giusto. La peggiore azione è la scelta migliore nel momento in cui la si compie. Il male sospende il giudizio, la coscienza e in questo, sì, è sempre assoluto. Dostoevskij diceva che il delinquente nel momento del delitto è in preda ad una leggerezza infantile.
Qual è il quadro che emerge di Charles Manson? Te lo chiedo non solo in riferimento al romanzo che hai scritto, ma anche in base a ciò che hai letto documentandoti su di lui.
Non ci sono apologie nelle mie parole, Manson è stato un criminale e che abbia commesso svariati crimini è un dato di fatto. Credo, però, che sia anche figlio di una circostanza. Charles Manson ha trascorso quasi una vita intera in carcere e quello che gli è rimasto, questo scampolo di vita, è terribile e desolante. Stiamo parlando di un uomo che confessa di preferire la vita dietro le sbarre alla libertà.
Sicuramente non è un mostro. Il mostro viene dopo, nella narrazione collettiva. Anzi, il mostro è la narrazione.
Questo accanimento giudiziario e mediatico nei suoi confronti deve essere stato qualcosa di devastante da subire. La cosa tristemente ironica è che alla fine lui, pur di esistere, ha scelto di addossarsi un’esistenza che gli è stata imposta, quella del mostro assetato di sangue.
Ci troviamo di fronte ad una figura molta diversa dai serial killer tradizionali (in realtà non è neppure un serial killer, perché oggettivamente non ha ucciso nessuno). I serial killer si esprimono con le loro azioni e quando parlano hanno poco di interessante da dire. Charles Manson era un uomo tutto sommato profondo e complesso, uno che in qualche modo è riuscito a strutturare sé stesso.
Leggendo il tuo libro, è molto interessante osservare il quadro di Hollywood che ne emerge. Da lettori (e in qualche modo spettatori) sembra quasi uno spaccato attuale, molto più vicino alla nostra società di quanto non si pensi. Un quadro complesso in cui il limite tra vittima e carnefice è estremamente labile ed è molto complicato riconoscerlo.
Hollywood è mostruosa da sempre, ricordiamo gli splendidi volumi di Kenneth Anger sul tema, dove si narra di omicidi, stupri e altre nefandezze. È un mondo che genera stelle di cartapesta. Affascinanti, bellissime, confortanti, ma senz’anima. Una finzione che serve per imbonire, che inebria. Se non fosse morta una star nella strage, tutto sarebbe passato in secondo piano. Ecco il peccato più grande di questa storia. Non si possono uccidere i sogni, soprattutto quando questi sono il prodotto confezionato da un establishment.
Va anche detto che è un mondo che non esiste più, la luce di queste stelle sta svanendo, la pila è scarica ormai. Perché per quanto finto quel mondo, almeno per noi seduti in sala ad ammirarlo, aveva un fascino, un magnetismo unico.
I miti non esistono più e senza mitologia non c’è il cinema. Le star non sono più i grandi attori di Hollywood ma gli “influencer” nei social. Non c’è più quella distanza tra il pubblico e le star. Il pubblico ha cannibalizzato le star.
Al di là della sua colpevolezza, quindi, Charles Manson era un capro espiatorio.
Il caso Manson può essere considerato una costola del Processo di Chicago, svoltosi poco prima, e che vide sul banco degli imputati i principali attivisti degli anni ‘60 o comunque l’ultima spallata di quella spinta altamente repressiva che l’America mise in atto contro i suoi stessi figli. La manifestazione di Chicago, che finì in un bagno di sangue, vide sfilare Abbie Hoffmann e Jerry Rubin affiancati dai pilastri della controcultura, come William S. Burroughs, Allen Ginsberg e Jean Genet. La vicenda è ben narrata nel volume Testimonianza a Chicago di Allen Ginsberg pubblicato per Einaudi, dove, giusto per dare un’idea, al termine della deposizione Ginsberg recita la sua poesia più famosa L’urlo e il pubblico ministero gli da del “fottuto finocchio.”
Gli hippie, e con loro tutti i movimenti di protesta, erano diventati scomodi, inaccettabili da un Governo che non rappresentava altro che una mentalità ottusa, quella dei padri. Ecco che il caso Manson apparve un piatto troppo prelibato per lasciarselo scappare. Finalmente si poteva dimostrare, cadavere alla mano, che quella spinta rivoluzionaria altro non era che la manifestazione di giovani menti delinquenziali. Infatti dopo la strage di Cielo Drive tutto quel desiderio di rinnovare il mondo finì definitivamente.
Ironia della sorte è, invece, proprio Manson a strappare il velo dell’ipocrisia dei suoi accusatori quando nella sua deposizione dichiara che quelli ad aver commesso la strage erano i loro figli. Cioè figli rifiutati di quella borghesia puritana e retrograda che governava il Paese.
Alla luce di tutto questo, tutta la vicenda appare politicamente edipica.
Secondo te come mai personaggi come Manson non possono più esistere oggi? Perché il fenomeno dei serial killer è svanito e non fa più parte della nostra epoca?
Forse perché oggi certe pulsioni puoi sfogarle in un altro modo, puoi sfogare il tuo desiderio in un’altra maniera. Internet è uno strumento potentissimo per soddisfare e alimentare deviazioni, violenze e altre amenità. Non è un caso che ci troviamo in una società più violenta, imbestialita. Una società schizofrenica che da un lato proibisce attraverso lo spauracchio del political correct e dall’altro concede tutto tramite la “rete”. Ognuno può appagare il proprio narcisismo che ormai è poco più di un prurito. Solo che Warhol aveva torto, quei 15 minuti di celebrità si sono trasformati in estenuanti dirette. Ce ne è per tutti.
Oggi il fenomeno dei serial killer appare demodé. L’ho sempre considerato, fuori dall’ambito psichiatrico, come fenomeno socio-antropologico.
L’idea della serializzazione era prettamente americana e i serial killer più noti vengono da lì. Mi hanno sempre fatto pensare a Guerre Stellari, ai McDonald, 1,2,3… Una società che si esprime in catene di fast food non può che generare catene di cadaveri. Solo che oggi l’individuo non è più oppresso dal peso dal peso di una società impersonale e ripetitiva che propone modelli irraggiungibili.
Oggi il pubblico è il modello di sé stesso che divora sé stesso guardando sé stesso.