Festa del Cinema di Roma 2019: Mamet, Barbareschi e le ferite da raccontare
Serendipità: sostantivo femminile che indica la capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte mentre si sta cercando altro. Il termine deriva dall’inglese Serendipity, coniato nel 1754 dallo scrittore inglese Horace Walpole che lo trasse dal titolo della fiaba The three princes of Serendip (l’antico nome dell’isola di Ceylon, l’odierno Srī Lanka).
Oggi sono arrivata alla Festa del Cinema di Roma convinta che avrei incontrato David Mamet. Non so bene se ho frainteso io la scaletta del Festival (probabile, vista la mia scarsa perspicacia nei confronti delle cose della vita), fatto sta che entro in sala e trovo sì e no 20 persone sedute e lì in effetti comincio a stranirmi. Spengono le luci e vedo entrare Luca Barbareschi. E’ arrivato al Festival in motorino e in palese ritardo, ci chiede se può posare le sue cose sulle poltrone (certo che puoi, che domande) e si siede. Ammetto di aver sempre provato sentimenti contrastanti nei confronti di Barbareschi, un po’ per la sua spocchia suprema, un po’ per le sue dichiarazioni sempre troppo sopra le righe, quindi non sapevo bene come pormi in questa circostanza. Ma ho sempre imparato a sospendere giudizi: l’ho fatto con Sgarbi, anni fa, quando sono andata a vedere una mostra curata da lui e me ne sono innamorata, ed ho deciso di farlo con Barbareschi stasera. E ho fatto bene.
“Io e David Mamet siamo molto amici – ha esordito Luca Barbareschi – e sono stato il primo in Italia a portare in teatro le sue opere. Credo sia molto importante parlare di lui perché Mamet fa parte di un cinema e di un teatro che non si vede più tanto, ultimamente, un teatro e un cinema che hanno un’urgenza, un forte bisogno di raccontare una storia, anche e soprattutto se quel bisogno è derivato da una ferita, da una qualche sofferenza.”.
Barbareschi ha ragione, ha cominciato a parlare da pochi minuti e già sono d’accordo con lui. David Mamet è uno dei più grandi sceneggiatori americani perché non perde mai di vista la sua storia, anzi la seziona chirurgicamente (e aristotelicamente) atto dopo atto, costellandola qui e là di colpi di scena inaspettati e allo stesso tempo sperati fino all’esplosione finale. Le sue sceneggiature sono perfette, blindate – come si usa nel gergo cinematografico – e seguono uno schema preciso, che mai può essere disatteso. Ma il genio di Mamet non si ferma qui.
“Sono ebreo, come Mamet – ha continuato Barbareschi – e come lui ho imparato l’arte della critica fin da piccolo. Non credo che gli ebrei siano più intelligenti, ma di certo sono più allenati, perché imparano la dialettica, la critica, il potere dei contrasti fin da subito. La religione ebraica ti insegna a tenere il cervello in costante allenamento, sempre attivo. Mamet è esattamente così, un uomo che non si è mai piegato al volere comune ed ha sempre lottato contro ciò che è politicamente corretto”.
Non è facile rimanere fuori dagli schemi in una società che ti impone di avere un pensiero comune, unico, facilmente condivisibile. Ma se rimaniamo ancorati nelle idee altrui non potremo mai svilupparne di nostre. E se non ne sviluppiamo di nostre non avremo mai un pensiero critico. Ed è dal pensiero critico che nascono i contrasti, i conflitti e se c’è una cosa che la sceneggiatura insegna è che il conflitto crea un’azione e che l’azione crea un’urgenza e quell’urgenza, presto o tardi, deve essere raccontata.
A fine incontro mi alzo, stringo la mano a Barbareschi e lo ringrazio, lui mi sorride, riprende le sue cose e va via. Di lì a poco avrei avuto un’altra proiezione ma sbaglio sala (un’altra delle mille cose che farei, sbagliare il luogo di un appuntamento è assolutamente da me) e cerco sul programma del Festival un’alternativa. Alle 19:30 c’è Your Mum and Dad, un documentario di Klaartje Quirijns che parla di traumi, ferite e dolori seppelliti nel nostro inconscio, traumi, ferite e dolori che ci tramandiamo di padre in figlio e che potrebbero non avere mai fine, se non sappiamo come rielaborarli. La protagonista, nonché regista del documentario, cerca di dimostrare – attraverso una seduta psicanalitica del suo amico psicologo – che spesso i traumi della nostra famiglia segnano le nostre esistenze, a volte inconsapevolmente. Quello che ne viene fuori è sbalorditivo: una specie di sessione psicanalitica collettiva a cui necessariamente prende parte anche la regista, che piano piano rivela traumi del suo passato davvero complicati da rielaborare. Neppure lo spettatore è esente da questo percorso – e anche lui, piano piano, comincia a chiedersi se c’è qualche dolore, nel suo vissuto, di cui i suoi genitori possono essere inconsapevolmente responsabili.
Il pretesto che avvia la narrazione è una poesia di Philip Larkin, This Be The Verse, che apre e chiude il racconto straziante e potentissimo di questo piccolo grande documentario.
La poesia ve la scrivo qui sotto perché è straziante e dovreste leggerla tutti:
They fuck you up, your mum and dad.
They may not mean to, but they do.
They fill you with the faults they had
And add some extra, just for you.
But they were fucked up in their turn
By fools in old-style hats and coats,
Who half the time were soppy-stern
And half at one another’s throats.
Man hands on misery to man.
It deepens like a coastal shelf.
Get out as early as you can,
And don’t have any kids yourself.
Mentre guardo Your Mum and Dad (che a quanto pare è piaciuto solo a me in sala, il che la dice lunga sul mio approccio al cinema rispetto al resto della gente) penso a quei traumi, quei dolori, quelle ferite e quell’urgenza che ci spinge a voler raccontare una storia. E alla serendipità di cui sopra, che mi ha fatto scoprire un Barbareschi inaspettato e mi ha fatto inciampare per caso in un documentario che mai come oggi avevo bisogno di vedere. Perché siamo tutti pieni di cicatrici, sul nostro corpo e ogni corpo ha una storia da raccontare. Per poterlo fare, però, è fondamentale imparare ad ascoltarsi, ad accettarsi e ad accogliere il nostro dolore.