The Killing of a Sacred Deer: la recensione del film di Yorgos Lanthimos

C’è qualcosa di incredibilmente aulico, nel cinema di Yorgos Lanthimos. Qualcosa che si perde nella notte dei tempi, prima che nascesse Cristo, lì dove ha avuto luogo la sua cultura di origine, quella greca classica.

In The Lobster, ad esempio, Lanthimos era riuscito a calibrare perfettamente il tragico con il grottesco, raccontandoci una storia surreale e drammatica insieme, senza distaccarsi troppo dallo spettatore e dalle sue esigenze.

A volte, però, può capitare che quello stesso aulicismo si accartocci su se stesso, diventando retorico e autoreferenziale, trasformando un film in qualcosa di così elevato da non poterlo raggiungere, mai, neanche volendo. È il caso di The Killing of a Sacred Deer (in italiano L’uccisione di un cervo sacro), dramma cupo e intenso in cui Yorgos Lanthimos racconta la storia di un uomo costretto a compiere un gesto estremo per compensare a qualcosa di tragico che lui stesso aveva compiuto.

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Ispirandosi alla tragedia greca più classica, quella di Euripide e nello specifico della sua Ifigenia in Aulide, Lanthimos torna a minare la serenità della famiglia con un racconto disturbante e atroce, come è disturbante e atroce il tipo di rapporto che il protagonista, il dottor Murphy (Colin Farrell) si trova costretto ad instaurare con Martin (Barry Keoghan), figlio di un suo precedente paziente.

Perché Martin è così insistente? Cos’è che cerca, esattamente, da lui e perché sembra non volergli lasciare alcun tipo di tregua? Ma soprattutto, cos’ha il dottor Murphy da nascondere? Qual è questo peccato da cui deve, ad ogni costo, liberarsi e fino a dove si spingerà per salvare se stesso?

 

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Lanthimos sceglie due riferimenti alti, per dirigere questo film: oltre al classicismo di Euripide, che nelle sue tragedie spingeva i suoi uomini a compiere i gesti più estremi, pur di compiacere le volontà divine, c’è qualcosa – in questo film – che ricorda molto da vicino un certo cinema europeo, che trova il suo massimo esponente in un regista come Haneke, che con il suo Funny Games ci aveva già raccontato una storia di famiglia, amore e morte indissolubilmente intrecciate tra loro e destinate a una tragica fine.

In The Killing of a Sacred Deer, Lanthimos sceglie una fotografia scarna, incredibilmente realistica, a cui accompagna inquadrature lunghe, fisse, affidandosi a imponenti carrellate a distanza per aumentare l’effetto disturbante del film. Pochissimi i dialoghi, scarni e pomposi insieme, al punto da sembrare davvero scritti da Sofocle o Euripide, incredibilmente presenti, invece, le musiche – e Lanthimos, per amplificare questo senso di impotenza e disperazione, sceglie di inserire brani di musica classica provenienti dal repertorio di Bach, Schubert e Ligeti.

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Tragico, drammatico, inesorabile, ma al di là dell’incredibile interpretazione di tutti i suoi protagonisti (su tutti Farrell e il giovane Keoghan), qualcosa sembra mancare a questo film così sapientemente confezionato per disturbare (in ogni senso possibile) lo spettatore: se nella tragedia di Euripide la giovane Ifigenia veniva tratta in salvo in extremis e sostituita con un cervo sacro (da lì, appunto, il titolo del film), in questa versione moderna di Lanthimos non c’è scampo per nessuno, non c’è speranza di salvezza e a pensarci bene non c’è neppure una vera e propria colpa da espiare, nessun vero e proprio dio da compiacere, nessuna anima da purificare. E se da un lato la storia disturba per i suoi toni cupi e silenziosamente violenti, dall’altro lato rischia di trasformare facilmente il tragico in grottesco precipitando inesorabile nel tragicomico finale. Ed è qui che, purtroppo, fallisce il film di Lanthimos: nel togliere all’uomo la possibilità di scelta – e al suo spettatore le risposte che cerca.

The Killing of a Sacred Deer
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